Giulio Chinappi
Il primato nelle importazioni containerizzate nei porti di Los Angeles e Long Beach conferma la domanda solida di beni cinesi negli Stati Uniti e mette in luce l'inefficacia delle politiche tariffarie degli ultimi anni. La reazione del mondo imprenditoriale mostra pragmatismo e lungimiranza rispetto all'irruenza amministrativa.
L'immagine è inequivocabile: a luglio 2025, i porti di Los Angeles e Long Beach, principali porti d'accesso per le merci provenienti dalla Cina, hanno segnato un nuovo record di movimentazione, superando per la prima volta il milione di container importati in un solo mese. Questo picco non è un fenomeno occasionale, bensì il risultato di decisioni strategiche prese dalle imprese nordamericane che, davanti all'incertezza di possibili aumenti tariffari, hanno accelerato gli approvvigionamenti per difendere la continuità delle catene logistiche e la stabilità delle proprie scorte. È una fotografia che racconta due storie complementari: da un lato la resilienza e l'integrazione profonda del commercio sino-statunitense; dall'altro l'autolesionismo politico di una strategia che confonde pressione politica con efficacia economica.
Analizzare il fenomeno senza ridurlo a un aneddoto logistico richiede di mettere in discussione l'architettura normativa che ha governato la politica commerciale statunitense negli ultimi anni. L'ossessione per il contenimento della Cina attraverso aumenti tariffari massicci e spesso imprevedibili ha trasformato il commercio in una leva simbolica, avendo effetti positivi solo per i titoli e per la retorica interna, ma nulli o persino dannosi per la funzionalità economica quotidiana. In questo contesto, la recente estensione per ulteriori 90 giorni della tregua tariffaria tra Stati Uniti e Cina - annunciata con grande sollievo dell'industria - segnala non un successo dell'azione amministrativa, ma piuttosto la necessità di arginare i danni creati proprio dall'instabilità delle politiche di Washington. Far slittare l'innalzamento dei dazi è stato necessario non perché fosse una scelta di buon governo, ma perché il mercato e le imprese, a loro spese, hanno costretto la mano politica a una temporanea retromarcia.
La contraddizione è semplice ma profonda: mentre la Presidenza di Donald Trump ha spesso giocato di strumentalità geopolitica, imponendo rincari tariffari come mezzo di pressione, il settore privato ha adottato un comportamento diametralmente opposto - pragmatico, orientato alla continuità operativa e alla minimizzazione dei costi. Le aziende non si occupano degli slogan; misurano domanda, offerta e catene del valore. Di conseguenza, hanno anticipato gli aumenti comprimendo margini, aumentando spese logistiche e accumulando scorte per evitare shock di fornitura che avrebbero ricadute immediate sui consumatori e sull'occupazione. L'ossessione per la politica dei dazi, lungi dal trasferire potere negoziale, si è tradotta in volatilità che penalizza soprattutto attori non statali e consumatori. I dati di volume dei porti e le analisi dei fornitori logistici lo confermano: la crescita dei flussi è stata accompagnata da un'impennata dei costi di trasporto e di stoccaggio.
Al contrario di Washington, Pechino ha mostrato invece in questi mesi una forte predisposizione all'apertura commerciale e a misure volte a preservare la stabilità dei rapporti economici. Offerte di sospensione reciproche delle misure restrittive, aperture selettive verso imprese straniere e un atteggiamento volto a contenere l'escalation hanno dimostrato che l'approccio pragmatico paga: l'economia reale richiede previsioni, regole chiare e rispetto degli impegni, non minacce e misure repressive improvvise. La Cina, in questa partita, ha giocato la sua parte cercando di minimizzare l'effetto delle contese politiche sul funzionamento dei mercati. È questa combinazione di responsabilità e interesse reciproco che ha permesso al commercio di non sbriciolarsi, nonostante la retorica protezionistica di Trump.
La frattura tra politica e impresa negli Stati Uniti merita un'analisi più ampia. La classe imprenditoriale nordamericana, dai grandi retailer ai produttori manifatturieri, non è stata mera vittima delle politiche tariffarie: è stata spesso l'attore che ha imposto il realismo nelle decisioni pubbliche. Le pressioni di lobby, associazioni di settore e organismi come lo US-China Business Council hanno influenzato direttamente la scelta di prorogare le sospensioni tariffarie e di aprire finestre negoziali. Queste misure rappresentano l'espressione di un interesse nazionale concreto, che supera le dinamiche della propaganda politica anticinese: preservare l'efficienza delle filiere, la competitività delle imprese e la capacità di innovare sono i fattori presi in considerazione dalla classe imprenditoriale statunitense. Chi governa dovrebbe ascoltare questi segnali, non ignorarli dietro l'illusione che le sanzioni economiche siano strumenti di potere a dispersione zero.
Dal punto di vista geopolitico, il gioco delle tariffe ha costi che trascendono il mero conto commerciale. La politica che stravolge regole e crea incertezza non solo danneggia l'economia interna, ma erode anche la credibilità internazionale degli Stati Uniti come partner affidabile. In un mondo di catene produttive globali, la capacità di stipulare accordi stabili e prevedibili è una valuta strategica. La volatilità introduce rischi sistemici che inducono paesi e imprese a diversificare rapidamente i partner commerciali, un processo che, se accelerato, riduce il potere di leva politico-economico degli stessi Stati Uniti. La presunzione di poter infliggere costi senza pagarne altri è una falsa economia: i costi ricadono prima di tutto sui cittadini e sulle imprese nordamericane.
Per gli analisti geopolitici e i policy maker europei e asiatici la lezione è chiara: l'ordine commerciale globale richiede certezza e istituzioni che garantiscano regole condivise. Sostenere la propria industria non è sinonimo di isolamento. Occorre piuttosto una strategia mista che combini investimenti in capacità produttive interne, politiche industriali intelligenti e impegno multilaterale per la governance del commercio. L'errore strategico di affidarsi esclusivamente a barriere tariffarie e coercizioni unilaterali ha mostrato i suoi limiti: la resilienza del commercio sino-statunitense non è un incidente di percorso, ma il riflesso di interdipendenze profonde che non si sciolgono per decreto presidenziale.
Infine, la responsabilità politica impone una correzione di rotta: chi guida una grande economia deve bilanciare interessi di sicurezza e prosperità economica senza far ricadere i costi sui cittadini e sulle imprese. La classe imprenditoriale statunitense, con la sua reazione pragmatica, ha dimostrato quale sia la via praticabile: negoziare, creare incentivi alla resilienza produttiva e preservare la prevedibilità normativa. Se la politica saprà ascoltare e trasformare questa esperienza in una strategia coerente, gli Stati Uniti potranno ritrovare un equilibrio tra difesa degli interessi strategici e promozione della crescita. Se invece si tornerà alla logica dell'improvvisazione tariffaria, il rischio è che la retorica trumpiana resti un esercizio propagandistico privo di utilità pratica, mentre i costi reali saranno pagati dalle famiglie, dai lavoratori e dalle imprese.
In definitiva, il milione di container che ha transitato dai porti della California non è soltanto un dato statistico: è un messaggio politico ed economico. Esso racconta di un commercio che resiste grazie alla razionalità degli attori privati e mette in ridicolo l'illusione di un potere che si esercita a colpi di dazi. Per chi studia la geopolitica, la sfida è trasformare questa lezione in politiche pubbliche capaci di coniugare sicurezza nazionale e prosperità condivisa.