Giacomo Gabellini
l'Iran sembra essere finito ancora una volta nel mirino di Trump, che appare anche in questo caso particolarmente sensibile alle sollecitazioni di Netanyahu circa l'opportunità di chiudere definitivamente i conti con l'"Asse della Resistenza" mediante la decapitazione della leadership iraniana, identificata come la "testa del serpente".
Riflettendo sul contenzioso tra Stati Uniti e Danimarca incentrato sulla Groenlandia, il conduttore di «Fox News» Jesse Watters ha affermato che «ogni paese mette al primo posto i propri interessi. Quando i nostri interessi si allineano, possiamo fare affari. Quando non lo fanno, succede... Se occorre bruciare qualche ponte con la Danimarca per acquisire la Groenlandia, lo faremo. Del resto, abbiamo sganciato bombe atomiche sul Giappone e ora sono i nostri principali alleati nel Pacifico». La politica mediorientale portata avanti dall'amministrazione Trump sembra ispirata alla stessa "logica" che innerva il discorso di Watters.
Uno dei primi memorandum presidenziali in materia di sicurezza nazionali firmati da Donald Trump dopo la rielezione sanciva «il ripristino della massima pressione sul governo della Repubblica islamica dell'Iran, volta a precludere all'Iran qualsiasi possibilità di ottenere un'arma nucleare e contrastare la sua influenza maligna all'estero». Parole pesanti come macigni, ma non necessariamente incompatibili con quanto dichiarato dallo stesso magnate newyorkese in campagna elettorale, secondo cui «il compito dell'esercito degli Stati Uniti non consiste nello scatenare guerre infinite e insensate per il cambio di regime in tutto il mondo». La retorica aggressiva rivolta contro Teheran poteva in altri termini preludere "semplicemente" all'adozione di una serie di provvedimenti economici e commerciali ostili nei confronti della Repubblica Islamica, e non allo scatenamento di un'operazione militare diretta.
Opzione, quest'ultima, che secondo un'inchiesta realizzata dal «New Yorker» era quasi scattata nel dicembre 2020. In quel frangente, Trump sarebbe stato sul punto di cedere alle pressioni esercitate da Benjamin Netanyahu, che attraverso una meticolosa opera di persuasione intendeva convincerlo ad avvalersi per l'ultima volta - prima di cedere il potere a Joe Biden - delle prerogative presidenziali per aggredire militarmente l'Iran. Stando alla ricostruzione formulata dalla pubblicazione statunitense, l'attacco non ebbe luogo grazie all'intercessione del generale Mark Milley, che in qualità di Capo dello Stato Maggiore congiunto dichiarò al presidente uscente che «se procedi, scatenerai una fottuta guerra».
A pochi anni di distanza, l'Iran sembra essere finito ancora una volta nel mirino di Trump, che appare anche in questo caso particolarmente sensibile alle sollecitazioni di Netanyahu circa l'opportunità di chiudere definitivamente i conti con l'"Asse della Resistenza" mediante la decapitazione della leadership iraniana, identificata come la "testa del serpente".
Lo scorso 23 marzo, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Mike Waltz ha intimato all'Iran di cambiare radicalmente la propria politica estera e «abbandonare completamente» il suo programma nucleare, pena conseguenze devastanti. Simultaneamente, gli Stati Uniti scatenavano una serie di attacchi aerei contro o Yemen per costringere Ansarullah a interrompere le proprie operazioni di pirateria navale nelle acque del Mar Rosso, e annunciavano per tramite di Trump sesso che avrebbero ritenuto l'Iran responsabile per qualsiasi operazione che la formazione yemenita avesse lanciato in futuro. Sul versante diplomatico, la Casa Bianca rendeva noto di aver fatto pervenire una lettera alla Guida Suprema Ali Khamenei in cui si sottolineava la necessità di un nuovo accordo sul nucleare iraniano, da formalizzare entro due mesi. Pochi giorni dopo, Trump ha intimato agli iraniani di «prendere una decisione, in un modo o nell'altro, o all'Iran succederanno cose molto brutte». Il 29 marzo, il presidente è tornato sulla questione, affermando ai microfoni della «Nbc News» che «se gli iraniani si opporranno a un nuovo accordo, ci saranno i bombardamenti», oltre a non meglio specificate misure punitive in ambito commerciale. La minaccia è stata reiterata da Trump due giorni dopo, attraverso un post pubblicato su Truth Social in cui si legge che «il vero dolore deve ancora arrivare, sia per gli Houthi che per i loro sponsor in Iran».
Dalle parole si è passati rapidamente ai fatti. In brevissimo tempo, gli Stati Uniti hanno spostato dal Pacifico occidentale all'Oceano Indiano la portaerei Uss Carl Vinson, e trasferito dalla base aerea di Whiteman, nel Missouri, all'isola di Diego Garcia una squadra di bombardieri stealth B-2 Spirit, più i relativi aerei cisterna.
Gli esperti militari hanno richiamato l'attenzione sull'imponenza e sull'irritualità dello spiegamento di forze, ritenendolo preparatorio a un'imminente operazione militare. Secondo l'ex rappresentante democratico al Congresso Dennis Kucinich, un eventuale attacco statunitense contro impianti di arricchimento iraniani di Fordow e Natanz e la centrale di Bushehr contemplerebbe quasi sicuramente l'impiego di ordigni convenzionali Massive Ordinance Penetrator da 30.000 libbre, o in alternativa di bombe nucleari a gravità B-83 da 1,2 megatoni.
Ne scaturirebbe uno scenario da incubo, come sottolineato dal viceministro degli esteri russo Sergij Ryabkov nell'esecrare la postura minacciosa a cui si è conformata l'amministrazione Trump. «Le minacce - ha dichiarato Ryabkov - vengono ascoltate, così come gli ultimatum. Consideriamo tali metodi impropri e li condanniamo perché li vediamo come un modo per imporre la volontà [statunitense] all'Iran». Soprattutto, ha puntualizzato il politico russo, la linea dura adottata da Washington rischia di sfociare nella classica eterogenesi dei fini.
L'impianto argomentativo di Trump e dei consiglieri per legittimare la politica della "massima pressione" sull'Iran si fonda sulla necessità di impedire che Teheran si doti dell'arma atomica, che secondo le valutazioni formulate dallo stesso Office of the Director of National Intelligence diretto da Tulsi Gabbard non rientra nei progetti della Guida Suprema. Nell'Annual Treath Assessment, pubblicato recentissimamente, si sostiene che «l'Iran non sta costruendo un'arma nucleare e Khamenei non ha autorizzato la riattivazione del programma di armi nucleari che aveva sospeso nel 2003, sebbene siano con ogni probabilità aumentate le pressioni su di lui affinché lo facesse [...]. Khamenei rimane tuttavia il decisore finale riguardo al programma nucleare iraniano», e rimane ancorato al «desiderio di evitare il coinvolgimento dell'Iran in un conflitto diretto e ampliato con gli Stati Uniti e i loro alleati. Gli investimenti iraniani nelle forze armate rappresentano un elemento chiave degli sforzi volti a fronteggiare le minacce incombenti e scoraggiare/difendersi da un attacco da parte degli Stati Uniti o di Israele».
Moltiplicando ed esasperando il tenore delle minacce, tuttavia, gli Stati Uniti stanno di fatto obbligando l'Iran a riconsiderare il proprio approccio rispetto alla questione nucleare. Lo ha evidenziato senza mezzi termini il consigliere della Guida Suprema Ali Larijani, secondo cui qualsiasi azione militare dovesse essere intrapresa dagli Stati Uniti e/o da Israele contro l'Iran orienterà inesorabilmente Teheran verso l'atomica. La L'imperativo di anteporre la sopravvivenza stessa della Repubblica Islamica a qualsiasi altra considerazione, decretato a suo tempo dall'Ayatollah Khomeini in persona, apre automaticamente il varco all'adozione di sentenze religiose (fatwa) che di fronte a circostanze di straordinaria gravità vanificano in via provvisoria quelle preesistenti di significato opposto. Compresa quella che vieta la messa a punto dell'arma nucleare.