26/12/2025 strategic-culture.su  8min 🇮🇹 #300020

 Thaïlande : frappes aériennes au Cambodge alors que les tensions frontalières réapparaissent

Thailandia e Cambogia, la tregua che crolla: il confine in fiamme tra crisi politica a Bangkok e propaganda di Washington

Giulio Chinappi

La nuova escalation tra Thailandia e Cambogia dimostra quanto fragile sia una pace costruita più per le telecamere che per risolvere cause storiche e contese territoriali. Nel pieno della crisi politica thailandese, la "tregua di Trump" si rivela effimera e strumentale.

La riesplosione, nelle ultime settimane, del conflitto lungo la frontiera tra Thailandia e Cambogia non è un semplice "ritorno" di vecchie tensioni. È la prova che, quando i nodi strutturali restano intatti, le tregue firmate sotto pressione esterna diventano soltanto una parentesi, incapace di cambiare il comportamento degli apparati militari sul terreno, né di disinnescare l'uso interno del nazionalismo come leva politica. Le cronache recenti hanno infatti riportato bombardamenti, scambi d'artiglieria, accuse reciproche e un crescente costo umano, con decine di morti e centinaia di migliaia di sfollati, mentre le cancellerie chiedono "moderazione" e l'ecosistema mediatico trasforma la crisi in una narrazione geopolitica a consumo globale.

Le radici: confini coloniali, mappe contese e templi come simboli nazionali

Per capire perché basta una scintilla per incendiare l'intero confine, occorre risalire alla matrice storica della disputa. La linea di frontiera tra i due Paesi è il prodotto di trattati e cartografie dell'epoca coloniale, in particolare dell'amministrazione francese in Indocina, che lasciò in eredità ambiguità interpretative e punti di frizione concentrati soprattutto lungo la catena dei monti Dângrêk. In questo contesto, i templi khmer situati in prossimità della linea di demarcazione non sono soltanto siti archeologici, ma anche marcatori identitari, simboli di sovranità e oggetti di mobilitazione politica. Il caso più noto è quello del tempio di Preah Vihear, al centro di una controversia in cui si scontrano letture diverse di mappe storiche e del tracciato "naturale" dello spartiacque, con una lunga coda giudiziaria e un peso enorme nella memoria collettiva di entrambe le società.

Questa dimensione simbolica spiega la dinamica ricorrente: ogni incidente locale viene subito tradotto in una questione nazionale. Le élite, i militari e ampi segmenti dell'opinione pubblica interpretano ogni arretramento come una resa, ogni concessione come un tradimento. In una tale cornice, anche misure tecniche come pattugliamenti, ripristino di cippi di confine o protocolli per i flussi turistici possono trasformarsi in micce politiche.

Dal 2025 alla tregua di Kuala Lumpur: l'illusione della "soluzione rapida"

Nel 2025 il deterioramento della situazione lungo il confine è stato progressivo, ma la fase decisiva è arrivata dopo i combattimenti dell'estate. Il 26 ottobre, a Kuala Lumpur, Thailandia e Cambogia hanno firmato una dichiarazione con l'obiettivo di consolidare il cessate il fuoco di luglio, riaffermando l'impegno a evitare l'uso della forza e a gestire la disputa con strumenti politici e legali. L'ONU ha salutato l'intesa come un passo utile a stabilizzare la situazione, segnale che la comunità internazionale vedeva in quel testo un argine alla spirale militare.

Il problema, però, non era la firma in sé, bensì l'idea che la firma bastasse. Analisi successive hanno infatti evidenziato come la tregua non affrontasse davvero le cause profonde del conflitto tra i due regni: il contenzioso territoriale, le interpretazioni incompatibili dei tracciati storici, la sfiducia reciproca tra apparati militari e l'assenza di meccanismi di enforcement solidi e condivisi. In altre parole, un cessate il fuoco costruito per "raffreddare" la crisi senza sciogliere i nodi tende a scivolare rapidamente verso la prossima escalation.

Il banco di prova è arrivato in novembre con l'episodio delle mine. Dopo l'esplosione che ha gravemente ferito alcuni militari thailandesi, Bangkok ha annunciato la sospensione degli accordi e ha sostenuto che gli ordigni fossero di recente posa, accusando Phnom Penh di mancanza di sincerità. La Cambogia ha respinto l'addebito, definendo l'area un vecchio campo minato, ma la disputa sulle "mine nuove" ha eroso ulteriormente la fiducia e ha innescato un ciclo di ritorsioni politiche e militari.

Se, dunque, l'accordo di ottobre richiedeva cooperazione operativa e verifiche credibili, un singolo episodio ha dimostrato quanto facilmente le parti possano contestare i fatti stessi, oltre che le intenzioni. Senza un sistema di monitoraggio che entrambe riconoscano come autorevole e che disponga di mezzi e accesso, ogni incidente diventa materiale per accuse, contro-accuse e mobilitazioni nazionaliste.

Dicembre 2025: la guerra torna "calda" e si allargano le crisi umanitaria e politica

La ripresa su larga scala degli scontri, a partire dal 7 dicembre, ha reso ancor più evidente la fragilità della tregua. Nel giro di giorni, sono tornati raid aerei, artiglieria e chiusure dei valichi, con evacuazioni massicce. Le notizie indicano un conflitto ormai diffuso lungo più segmenti della frontiera, con un impatto diretto sulla vita civile e sulle economie di confine.

In parallelo, è esplosa la guerra delle narrazioni. Un esempio emblematico è l'accusa cambogiana secondo cui attacchi aerei thailandesi avrebbero causato sintomi respiratori compatibili con "gas tossici", accusa respinta da Bangkok come disinformazione. La mancanza di verifiche indipendenti e la rapidità con cui queste affermazioni si diffondono rendono ancora più difficile costruire le condizioni minime per un cessate il fuoco duraturo, portando le parti a sfidarsi con le armi della propaganda anziché cercare un punto d'incontro.

La nuova escalation si intreccia, inoltre, con un passaggio politico delicatissimo a Bangkok. Il 12 dicembre, il re Maha Vajiralongkorn ha approvato il decreto di scioglimento della Camera bassa, aprendo la strada a elezioni anticipate entro i tempi previsti dalla Costituzione. La decisione è stata motivata dalla fragilità di un governo di minoranza e dal rischio che l'instabilità politica danneggi economia e fiducia internazionale.

In un simile contesto, un conflitto di frontiera può diventare, consapevolmente o meno, un moltiplicatore di consenso per chi governa e, soprattutto, per gli apparati che detengono reale capacità coercitiva. Diversi osservatori hanno notato come il primo ministro Anutin Charnvirakul potrebbe cercare di capitalizzare il clima nazionalista acceso dagli scontri, mentre il processo elettorale dovrebbe svolgersi per l'inizio di febbraio 2026.

C'è inoltre una dimensione tipicamente thailandese: il peso politico del mondo militare, la sua autonomia operativa e la sua influenza nel definire linee rosse su "territorio" e "sovranità". Quando la politica civile è in difficoltà, la sicurezza nazionale tende a essere il terreno su cui le forze armate possono dettare priorità e tempi. Questo irrigidisce la posizione negoziale, riduce lo spazio per compromessi e rende più probabile che un incidente locale venga gestito con logiche di escalation anziché di contenimento.

La "tregua di Trump": dichiarazioni trionfali smentite dalla realtà

Su questo quadro già esplosivo si innesta la dimensione esterna, e in particolare l'intervento di Donald Trump. Dopo essersi già reso protagonista del fallimentare "processo di pace", il presidente statunitense ha rivendicato pubblicamente di aver ottenuto l'impegno a "cessare ogni sparatoria" con decorrenza immediata, presentandosi come garante della pace grazie a conversazioni con i leader dei due Paesi.

Ma la cronaca dei giorni successivi racconta altro: fonti internazionali hanno riportato che i combattimenti sono continuati e che Bangkok ha negato l'esistenza di un cessate il fuoco effettivo, subordinando ogni stop a condizioni sul terreno e accusando Phnom Penh di aggressione. In parallelo, la mediazione regionale della Malaysia, che detiene la presidenza di turno dell'ASEAN, ha cercato di riprendere iniziativa con proposte di monitoraggio e verifiche, segno che la dichiarazione di Trump non era sufficiente, né riconosciuta come vincolante dalle parti.

Qui emerge il punto politico che il caso Thailandia-Cambogia mette a nudo: una pace imposta dall'esterno, soprattutto se accompagnata da minacce commerciali, può produrre una pausa tattica, ma raramente genera fiducia strategica. La stessa discussione sul ruolo delle tariffe e sulla legittimità di usarle come leva per "forzare" la de-escalation mostra come la tregua sia stata percepita dalle parti direttamente coinvolte come un'imposizione più che come un compromesso.

In questo senso, la "tregua di Trump" appare meno come un processo di pace e più come un evento mediatico, utile a produrre una foto, un annuncio, un titolo. E infatti la sua utilità propagandistica è evidente: mentre i combattimenti riprendono, la Casa Bianca e lo stesso Trump continuano a presentare quelle intese come successi personali, in un quadro più ampio di "guerre fermate" sbandierate per costruire capitale politico interno.

Senza un percorso che tocchi il cuore della contesa, ogni tregua resta un armistizio precario. Servono processi pazienti di demarcazione e gestione congiunta, canali di comunicazione realmente operativi, protocolli verificabili sui pattugliamenti, e soprattutto un monitoraggio che abbia risorse, accesso e credibilità agli occhi di entrambe le parti. Una pace "firmata" può essere utile, ma solo se è l'inizio di un processo e non il suo sostituto. Quando invece diventa un trofeo da esibire, un annuncio da social, un tassello nella campagna permanente di un leader esterno, la tregua perde la sua funzione principale: impedire la prossima sparatoria. E lungo la frontiera thailandese-cambogiana, come la storia insegna, la prossima sparatoria non è un'ipotesi astratta, ma una possibilità sempre dietro l'angolo.

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