Giacomo Gabellini
Giacomo Gabellini analizza gli eventi delle ultime settimane nel suo articolo sulle iniziative di Trump che hanno portato a una guerra commerciale.
Parte I - Ascesa e declino di "Chimerica"
Verso la fine degli anni '60, gli Stati Uniti versavano in una situazione economica particolarmente complicata. La ricostruzione economica di alleati e satelliti promossa con capitali e risorse materiali statunitensi all'indomani della Seconda Guerra Mondiale aveva posto le condizioni per un'enorme espansione del commercio protrattasi per circa un ventennio. Senonché, la combinazione di obiettivi geopolitici (containment nei confronti dell'Unione Sovietica) e necessità economiche (abbattere i costi di produzione e "protezione") su cui si era fondata la ricostruzione di Europa e Giappone e la loro trasformazione in potenze industriali votate all'export si tradusse nell'accumulo di crescenti avanzi commerciali che compromisero l'equilibrio delle partite correnti statunitensi. Alla perdita di competitività del sistema produttivo domestico andava peraltro a sommarsi l'incremento astronomico dei costi di mantenimento dello "Stato di sicurezza nazionale" interno e dell'architettura di difesa estesa all'Europa occidentale e all'Asia orientale
Gli squilibri andarono ulteriormente acuendosi nel momento in cui gli Usa cominciarono ad avvertire i contraccolpi generati dalla Guerra del Vietnam, sotto forma di aumento vertiginoso dei deficit pubblico e di bilancia dei pagamenti. Il risultato fu un deflusso d'oro verso Europa occidentale e Giappone, con conseguente incremento della pressione sul dollaro che indusse infine Nixon a decretare il ripudio unilaterale degli accordi di Bretton Woods. Allo stesso tempo, le autorità di Washington predisposero l'apertura alla Cina di Mao Zedong, propedeutica alla sua integrazione nello schieramento occidentale. Se l'ex Celeste Impero necessitava di tecnologie e investimenti che solo l'Occidente era nelle condizioni di assicurare, gli Stati Uniti si trovavano a loro volta nell'impellenza di mitigare le pressioni inflazionistiche scaturite dal ritiro unilaterale dagli accordi di Bretton Woods e dalla crisi petrolifera del 1973. Mossa dalla ricerca dei migliori vantaggi comparati, la riallocazione geografica dei capitali statunitensi si risolse così in una migrazione generalizzata delle filiere produttive statunitensi verso la Repubblica Popolare Cinese, che mettendo a disposizione il proprio enorme bacino di manodopera a basso costo e inquadrata militarmente si impose come la massima beneficiaria della "transnazionalizzazione" delle catene del valore e del consolidamento del regime liberoscambista.
Per gli Stati Uniti (maggiori consumatori a livello mondiale), il contenimento dell'inflazione è quindi venuto a dipendere, oltre che dall'importazione di manodopera straniera a basso costo utile a mantenere stagnante la crescita dei salari nominali, dalla preservazione del potere d'acquisto interno garantita proprio dall'afflusso costante di merci a buon mercato prodotte dalla Cina (maggior risparmiatrice a livello mondiale). A sua volta, Pechino ha reinvestito prevalentemente in titoli di Stato statunitensi le disponibilità finanziarie accumulate mediante l'export verso gli Stati Uniti. Da questo rapporto di interrelazione reciprocamente vantaggiosa sotto il doppio profilo economico e finanziario è scaturito un blocco geoeconomico denominato per semplicità "Chimerica".
Verso la metà del 2005, la Cina aveva già riciclato oltre 1.000 miliardi di dollari di proventi dell'export nell'acquisto di Treasury Bond. A quattro anni di distanza, il «Financial Times» scriveva che «il Dollar Standard informale che è succeduto all'epoca di Bretton Woods ha consentito ai Paesi in deficit, come gli Stati Uniti, di consumare più di quanto producono, e ai Paesi in surplus, come la Cina, di produrre più di quanto consumano [...]. Attualmente, il deficit commerciale degli Stati Uniti persiste, mentre il surplus della Cina continua ad espandersi. Almeno per il momento, il "deficit senza lacrime" sopravvive».
Il «tributo cinese all'impero americano», come lo definì lo storico dell'economia Niall Ferguson, risultava funzionale a una ben precisa strategia operativa: apportare un contributo cruciale al finanziamento del deficit statunitense attraverso l'acquisto diretto di titoli di Stato Usa, così da mantenere ampia la forbice tra yuan-renminbi e dollaro e rendere le merci cinesi altamente competitive sul gigantesco mercato statunitense. Si trattava di una prassi necessaria nella fase di "accumulazione primitiva" sorretta dall'export, ma soggetta a una graduale perdita di centralità man mano che la Repubblica popolare cinese spostava l'asse della crescita dalle esportazioni al consumo interno e procedeva all'ammodernamento tecnologico della propria struttura produttiva. Una svolta, quest'ultima, che l'apparato dirigenziale di Pechino aveva già messo in cantiere, ma destinata a subire una brusca accelerata in seguito alla bancarotta di Lehman Brothers.
Il piano di investimenti lanciato dall'apparato dirigenziale di Pechino all'indomani del crack ha generato effetti dirompenti, perché ha comportato la concessione di concreto sostegno finanziario alla popolazione e l'allestimento di una gigantesca rete infrastrutturale interna.
Il modello cinese, capace di combinare i vantaggi della pianificazione strategica centralizzata a quelli dell'economia di mercato in un contesto di rigoroso controllo pubblico dell'infrastruttura monetaria, ha posto Pechino nelle condizioni di conseguire un processo di trasformazione senza precedenti. Da fornitrice di merci a basso costo dall'irrisorio o scarso valore aggiunto, la Cina si è gradualmente affermata come prima forza sia industriale che commerciale del pianeta e principale importatrice di materie prime, in grado di conseguire un costante incremento sia quantitativo che qualitativo delle proprie risorse militari. Detiene otto dei primi dieci porti industriali al mondo. Ogni anno, deposita il doppio dei brevetti e sforna un numero di laureati nel comparto Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) dalle 8 a 15 volte superiore agli Stati Uniti a fronte di una popolazione di 4 volte maggiore. Se tra il 2003 e il 2007 gli Stati Uniti erano leader mondiali in 60 dei 64 settori coperti dal Critical Technology Tracker dell'Australian Strategic Policy Institute (Aspi) contro i 3 totalizzati dalla Cina, nel 2023 la Cina era diventata leader in 57 aree.
La quota di valore aggiunto sul totale a livello mondiale generata dal settore manifatturiero della Cina supera ampiamente quella ricavabile dalla sommatoria degli apporti forniti da Stati Uniti e Unione Europea. L'ex Celeste Impero occupa una posizione semi-monopolistica sulla produzione delle terre rare e acquisisce continuamente infrastrutture strategiche e determinanti finanziarie all'estero funzionali al potenziamento delle proprie capacità di investimento e proiezione di potenza. Sovvenziona mediante sussidi e protegge con barriere sia tariffarie che normative quelle aziende operanti nei settori chiave dell'avionica, dell'energia e dell'informatica che l'apparato dirigenziale di Pechino punta a trasformare in imprese leader a livello mondiale.
I progressi sensazionali realizzati dalla Repubblica popolare cinese nel campo dei supercomputer e in materia di cyberwarfare testimoniano come il Paese sia ormai ben instradato lungo il percorso che conduce al raggiungimento degli ambiziosi traguardi prefissati dai pianificatori di Pechino, e avvalorano le previsioni formulate già nel 2012 dall'Us National Intelligence Council all'interno di un rapporto in cui si legge che «probabilmente, la Cina supererà gli Usa affermandosi come prima economia mondiale prima del 2030 [...]. Entro quella data, l'Asia sorpasserà in termini di potere globale l'Europa e il Nord America combinati, stando alle proiezioni relative a Pil, popolazione, spesa militare e investimenti in tecnologia».
Dall'analisi delle economie cinese e statunitense condotta in base al criterio del Pil a parità di potere d'acquisto, elevato a indicatore di riferimento dalla stessa Cia perché considerato il parametro maggiormente affidabile, emerge che in realtà il sorpasso è già avvenuto nel 2014. Lo certifica il World Economic Outlook redatto in quell'anno dagli specialisti dell'Fmi, in cui si dava atto che la Cina aveva sviluppato un'economia da 17.600 miliardi di dollari, a fronte dei 17.400 miliardi raggiunti da quella statunitense. Da allora, attestano i rapporti redatti anno dopo anno dagli economisti dell'Fmi, il "Dragone" non ha fatto altro che accumulare ulteriore vantaggio sugli "inseguitori", imponendosi come principale produttore mondiale di abbigliamento, acciaio, alluminio, computer, mobili, navi, prodotti farmaceutici, semiconduttori, telefoni cellulari e tessuti.
Parte II - L'offensiva tecnologico-commerciale statunitense
Così, mentre gli Usa inasprivano le politiche migratorie restringendo l'offerta di manodopera e stimolando così la crescita nominale dei salari, la solidità di "Chimerica" veniva gradualmente meno, compromessa da incrinature sempre più larghe e profonde dovute essenzialmente all'ascesa politica, economica, tecnologica e militare cinese. Per gli Usa, la Repubblica Popolare Cinese si è quindi trasformata nel principale rivale strategico da "contenere" con ogni mezzo disponibile.
Sotto l'amministrazione Obama, l'apparato dirigenziale Usa si è cimentato nel tentativo di confinare la Cina a un isolamento politico-commerciale attraverso i trattati di libero scambio transatlantico (Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership, Ttip) e transpacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp). Programmi speculari, votati entrambi allo sfruttamento dello «status di nazione consumatrice numero uno al mondo di cui sono titolari gli Usa per creare una nuova versione della "diplomazia del dollaro" [...]. Il suo pivot strategico era orientato a strappare alla Cina i suoi fondamentali partner commerciali per portarli nell'orbita di Washington [...]. Il presidente ha lanciato una dottrina compensativa, cercando di tagliare economicamente l'"isola-mondo" lungo la sua divisione continentale sui Monti Urali attraverso due accordi commerciali che miravano a imporre gli Stati Uniti come polo globale per quasi i due terzi del Pil e quasi i tre quarti di commercio mondiale».
La conclamata impossibilità di assimilare il "Dragone" nelle reti Usa e l'elevatissima soglia di potere raggiunta da Pechino hanno quindi indotto gli apparati militari e di intelligence statunitensi ad adottare un approccio maggiormente aggressivo, inteso a disarticolare il modello di sviluppo cinese (il cosiddetto "socialismo con caratteristiche cinesi").
Il progetto di contenimento della Repubblica Popolare Cinese è stato quindi esteso dall'ambito strettamente commerciale a quello tecnologico, attraverso l'innalzamento di barriere protettive contro la penetrazione cinese nei settori hi-tech, la messa al bando di Huawei e Zte, l'imposizione del divieto di export di semiconduttori e macchine litografiche verso il "Dragone" e l'arruolamento di soggetti di particolare rilevanza come Taiwan.
Quelli adottati nel corso degli anni da Washington rappresentano provvedimenti particolarmente aggressivi, intesi a sabotare la catena di approvvigionamento di tutte le principali aziende di alta tecnologia cinesi, favorire il "disaccoppiamento" (decoupling) tra le due economie in modo da infrangere i vincoli che legano le imprese statunitensi alle filiere produttive cinesi e colpire il "Dragone" nei settori a cui Pechino attribuisce un elevato valore strategico.
Soltanto nel 2018, le misure assunte dagli Stati Uniti hanno prodotto un innalzamento delle tariffe medie sulle importazioni dalla Cina dal 3,1 al 12%, poi giunte alla soglia del 21% l'anno successivo. La Cina, a sua volta, ha reagito elevando proporzionalmente i dazi sulle merci statunitensi. Benché le prime restrizioni fossero state introdotte già sotto l'amministrazione Obama, si tratta comunque di un vero e proprio "avvitamento", in considerazione del fatto che, nell'arco di pochi mesi, la quota di commercio sottoposta a tariffe è passata da una percentuale insignificante al 47% negli Usa e del 65,5% in Cina, per poi calare leggermente in quest'ultimo Paese (58,3%) e arrivare al 66,4% negli Stati Uniti. Nella tarda primavera del 2019, l'87% dei flussi commerciali dalla Cina agli Stati Uniti era sottoposto a una qualche forma di restrizione. I cinesi, per ritorsione, avevano imposto un trattamento discriminatorio al 91% dei prodotti statunitensi. Tra il 2018 e il 2024, le amministrazioni Trump e Biden hanno introdotto dazi del 25% su una platea di prodotti cinesi pari a 250 miliardi di dollari, del 7,5% su altre categorie merceologiche per controvalore di 120 miliardi di dollari, e del 100% su automobili a trazione elettrica, componentistica utile alla "transizione ecologica", acciaio, alluminio e semiconduttori. Grazie alle tariffe imposte nel periodo interessato, l'aliquota media su elettronica ed elettrodomestici è passata dal 6 al 18%; quella sui beni di consumo, da circa il 10 al 23%; quella su minerali, metalli e chimica, dal 20 al 30%; quella sui macchinari, dal 23 al 33%. La Cina ha reagito con la consueta prontezza, per un verso imponendo contro-tariffe del 15% sulle importazioni di carbone e gas naturale liquefatto statunitense, e del 10% su greggio, macchinari agricoli, veicoli di grossa cilindrata e pick-up. Per l'altro, portando avanti il preesistente processo di "alleggerimento controllato" delle detenzioni di Buoni del Tesoro statunitensi, introducendo pesanti restrizioni sulle esportazioni di tungsteno, tellurio, bismuto, indio e molibdeno, e avviando parallelamente una indagine antitrust su Google, supplementare a quella già in corso sul conto di Nvidia.
Le nuove tariffe imposte in occasione del cosiddetto "Liberation Day" dall'amministrazione Trump inaspriscono la tendenza in atto. Il criterio adottato per definire l'entità dei dazi consiste nel rapporto tra avanzo commerciale che il singolo Paese in oggetto assomma nei confronti degli Stati Uniti e ammontare complessivo delle esportazioni che vi realizza. La cifra che scaturisce da questa semplice divisione, identificata da Washington come la barriera illegittima imposta nei confronti delle esportazioni statunitensi, viene quindi dimezzata quantificando il valore del cosiddetto dazio compensativo imposto da Washington. Verso la Cina, rispetto alla quale gli Stati Uniti hanno chiuso il 2024 con un disavanzo commerciale pari a 295 miliardi a fronte di un volume di importazioni di 439 miliardi, è stato imposto un dazio compensativo del 34%, ricavabile dal dimezzamento della barriera illegittima (67%) che si ottiene dividendo il deficit Usa verso la Cina per il valore complessivo delle importazioni dallo stesso ex Celeste Impero (0,67). Sommato a quelli preesistenti, il dazio annunciato da Trump a inizio aprile innalzava la barriera tariffaria verso i prodotti cinesi al 54%, elevandola simultaneamente anche nei confronti di una vastissima platea di soggetti (dal Vietnam al Madagascar, da Taiwan a Israele, dall'India al Giappone, dalla Cambogia all'Unione Europea). Vanno inoltre menzionate le tariffe del 25% sulle automobili, acciaio e alluminio introdotte nei mesi precedenti.
Attraverso i dazi, Trump punta de facto a militarizzare il mercato statunitense, vincolandone l'accesso alla disponibilità delle controparti ad aprirsi agli interessi statunitensi. La logica sottostante alla sua linea d'azione, che incrementa considerevolmente i rischi di recessione, è stata limpidamente sviscerata dal direttore del National Economic Council Kevin Hassett, il quale ha annunciato con visibile soddisfazione che oltre 50 Paesi avrebbero contattato la Casa Bianca per avviare trattative commerciali. Da questi negoziati gli Stati Uniti ambiscono a ricavare compensazioni per la revoca dei dazi appena introdotti che consentano di attenuare il colossale squilibrio nei conti con l'estero. Nel 2024, il saldo tra esportazioni e importazioni degli Stati Uniti è risultato negativo per 1,1 trilioni di dollari, corrispondenti alla differenza tra la spesa totale del Paese (30,1 trilioni) e il suo reddito complessivo (29 trilioni). La condizione deficitaria è strutturale e in costante aggravamento - come certificato dallo stato catastrofico dalla posizione finanziaria netta - ormai da molto tempo, inchiodando gli Stati Uniti a una posizione debitoria sempre più problematica. Lo ha sottolineato senza mezzi termini il segretario al Commercio Howard Lutnick, dichiarando nel corso di una intervista rilasciata alla «Cbs» che «occorre resettare e ridefinire i rapporti di potere degli Stati Uniti sia nei confronti degli alleati che dei nemici. L'idea che tutti i Paesi del mondo possano accumulare eccedenze commerciali con gli Stati Uniti e acquistare con il ricavato i nostri asset da noi non è sostenibile. Stiamo parlando di quasi 1,2 trilioni di dollari [di passivo, nda] all'anno ormai. Nel 1980 eravamo un investitore netto. Possedevamo cioè il più asset del resto del mondo di quanto il resto del mondo ne possedesse di nostri [...]. E ora gli stranieri possiedono 18 trilioni di dollari di asset in più rispetto a noi. Sono diventati creditori netti. Realizzando ormai 1,2 trilioni di dollari di avanzo commerciale, il resto del mondo acquisterà ogni anno ulteriori 1,2 trilioni di dollari di asset americani... La situazione continuerà a peggiorare costantemente. Alla fine non saremo più proprietari del nostro Paese; il proprietario sarà il resto del mondo!».
I dazi rappresentano lo strumento principe individuato dall'attuale governo di Washington per correggere questo pericoloso sbilanciamento. Trump e i suoi collaboratori intendono avvalersene come leva sia per incentivare le imprese a rilocalizzare sul suolo statunitense, sia per strappare ai partner la rimozione degli ostacoli che impediscono la penetrazione di quelli che si configurano ormai come gli unici comparti altamente competitivi degli Usa: i servizi. Più precisamente, i comparti del "terziario avanzato" riconducibili al mondo finanziario e assicurativo, che forniscono un apporto determinante a mantenere in attivo la componente relativa ai servizi del conto delle partite correnti degli Stati Uniti nei confronti sia della Cina che dell' Unione Europea. La gestione del risparmio cinese (così come di quello europeo), in particolare, rappresenta per Wall Street una sorta di "sogno proibito", reso irrealizzabile dalla impenetrabile "grande muraglia" normativa innalzata da Pechino di cui gli Usa ambiscono a ottenere la rimozione o quantomeno l'indebolimento proprio come contropartita per la revoca dei dazi.
Parte III - La risposta cinese e la "retromarcia" di Washington
Senonché, la Cina ha risposto anzitutto ripudiando l'intesa per la vendita di TikTok a società non cinesi. Questa, per lo meno, è la versione di Donald Trump, il quale ha poi spiegato che «la mia amministrazione ha lavorato duramente per un accordo per salvare TikTok e abbiamo realizzato enormi progressi», ma «l'accordo richiede più sforzi per garantire che vengano firmate tutte le approvazioni necessarie, motivo per cui sto firmando un ordine esecutivo per mantenere TikTok attiva e funzionante per altri 75 giorni». La componente più dura della rappresaglia cinese è tuttavia consistita nell'imposizione di tariffe simmetriche sulle importazioni statunitensi, oltre che alla svalutazione più o meno "pilotata" dello yuan-renminbi.
Il botta e risposta che ne è scaturito si è risolto provvisoriamente con l'imposizione di contro-dazi dell'84% da parte della Cina, e nell'ulteriore innalzamento delle barriere tariffarie statunitensi sulle merci cinesi al 125%. Segno che, contrariamente alle valutazioni formulate a caldo da Trump stesso secondo cui «la Cina ha fatto un passo falso, si è fatta prendere dal panico. L'unica cosa che non può permettersi di fare!», la postura adottata dalla Cina denota «sorprendente sicurezza», come rilevato dall'«Economist». Una confidenza nei propri mezzi riconfermata dal comunicato diramato dal Ministero del Commercio cinese, che dinnanzi alla postura muscolare adottata da Trump ha messo in chiaro che «la minaccia degli Stati Uniti di aumentare i dazi sulla Cina rappresenta un errore cumulato a un errore precedente [...]. La Cina non lo accetterà mai. Se gli Stati Uniti insisteranno, la Cina combatterà fino alla fine».
La reazione calibrata opposta da Pechino nasce dalla convinzione che il Paese dispone della forza necessaria per reggere l'urto statunitense, avendo ormai abbracciato un modello di crescita maggiormente baricentrato sulla domanda interna e l'avanzamento tecnologico. Sebbene abbia chiuso il 2024 con un avanzo commerciale record di 992 miliardi di dollari, la Cina ha costantemente ridotto il peso delle esportazioni rispetto al Pil, fino a portarlo all'attuale 19%. Una percentuale sostanzialmente contenuta, specialmente se raffrontata a quella realizzata da Paesi come Germania (43,4%) e Italia (33,7%). Un ruolo preponderante sul dato aggregato lo rivestano ancora le commesse pubbliche, ma i consumi in rapido e costante aumento hanno permesso alla Cina di accreditarsi come principale mercato per diciassette delle venti grandi categorie merceologiche, tra cui veicoli a trazione sia elettrica che convenzionale, carne, pesce, alcoolici, caffè, bibite gassate, abbigliamento, calzature, beni di lusso, elettrodomestici, telefoni cellulari, computer, sanità, turismo.
Il consolidamento della domanda interna concorre a ridimensionare la centralità rivestita dal mercato statunitense in misura paragonabile all'aumento degli scambi con i Paesi dell'Asia orientale. Attualmente, il volume del commercio cinese con gli Stati inquadrati nel Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep, che riunisce i membri dell'Asean, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l'Australia e la Nuova Zelanda) supera di gran lunga quello realizzato con Unione Europea e Stati Uniti e sembra destinato ad aumentare ulteriormente. In una nota ai clienti, la società di analisi Capital Economics ha stimato che, «a meno che non vengano revocati, gli ultimi aumenti dei dazi statunitensi faranno sì che le spedizioni cinesi verso gli Stati Uniti si dimezzeranno nei prossimi anni, anche ipotizzando un indebolimento molto significativo dello yuan-renminbi [...]. Questo ridurrà il Pil cinese di una percentuale compresa tra l'1 e l'1,5%, a seconda della capacità cinese di dirottare merci verso altri mercati. Si tratta di un colpo duro, ma destinato probabilmente ad essere compensato da un'ulteriore espansione del sostegno fiscale».
La composizione dell'export cinese verso gli Stati Uniti, di converso, rende le tariffe imposte da Trump particolarmente insidiose per i consumatori statunitensi. A differenza dell'Unione Europea, che esporta in buona parte prodotti destinati ai segmenti medio-alti della società, la Cina vende negli Usa merci di larghissimo consumo altamente competitive e dall'elevato contenuto tecnologico, che non possono essere sostituite in breve tempo attraverso la fabbricazione domestica, né con forniture alternative. Non esiste altro Paese al mondo dotato di struttura demografica e dei costi che consentano di aumentare il volume dei processi produttivi con la rapidità e l'efficacia garantiti dall'ex Celeste Impero, come testimoniato dal sostanziale fallimento in cui si sta risolvendo l'ostinato tentativo degli Usa di "disaccoppiarsi" dalla Cina, disarticolare le sue catene di approvvigionamento e ridefinire i flussi di manodopera, materie prime, semilavorati e prodotti finiti in funzione anti-cinese. La Cina, evidenziano due accademici australiani, «è ormai diventata un leader dell'innovazione in vari settori, e da assemblatrice si è trasformata in un sofisticato fornitore chiave delle catene del valore globali [...]. Attualmente, mentre le industrie manifatturiere di fascia bassa vengono delocalizzate, quelle a maggior valore aggiunto, caratterizzate da catene di approvvigionamento più lunghe, non hanno altra scelta che rimanere in Cina, dove beneficiano di un ecosistema produttivo efficiente e completo, di infrastrutture sviluppate e di una burocrazia pubblica funzionante. Tutti fattori che continuano ad attrarre investimenti esteri nonostante le crescenti tensioni geopolitiche».
L'inaggirabilità della potenza economica e commerciale cinese ha finora vanificato le politiche di reshoring e friendshoring portate avanti dagli Stati Uniti in un'ottica di reindustrializzazione domestica, e conferisce ai dazi imposti da Trump una natura smaccatamente inflazionistica, assicurando per di più alla Federal Reserve un ulteriore argomento per mantenere in vigore, contro la volontà del governo, la politica monetaria restrittiva adottata a partire dal 2022. A subirne le conseguenze sarebbe la popolazione statunitense, strutturalmente allergica al risparmio e che, stando a una ricerca condotta da Bankrate nel gennaio 2024, risultava per il 44% sprovvista di accantonamenti sufficienti a sostenere una spesa imprevista di 1.000 dollari. La dimensione privata del welfare statunitense, dominata dai fondi, vincola inoltre il mantenimento dell'assistenza, sociale, sanitaria e pensionistica per una quota assai rilevante di cittadinanza all'andamento dei listini azionari, la cui caduta fragorosa verificatasi in seguito all'offensiva tariffaria statunitense è stata comprensibilmente alla stregua di un pericoloso campanello d'allarme.
Le tariffe imposte dal governo statunitense sono quindi venute a configurarsi come l'elemento chiave di una più ampia manovra di consolidamento fiscale "non convenzionale". Una "cura da cavallo" che segna, come sottolineato da Jp Morgan Chase, il più grande aumento delle tasse dai tempi del Revenue and Expenditure Control Act del 1968, implicante una sovrattassa del 10% sulle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle aziende in un'ottica di contenimento dell'inflazione e riduzione del deficit di bilancio, che era cresciuto enormemente per le implicazioni della Guerra del Vietnam. Allo stesso modo, la linea protezionista sposata da Trump sembrava destinata a comprimere i consumi interni e ridimensionare il disavanzo pubblico, identificati come i passaggi chiave per correggere il colossale squilibrio nei conti con l'estero sebbene i principali fattori di appesantimento della posizione deficitaria Usa vadano ricercati altrove. Più specificamente, nelle iperboliche spese militari (che Trump ha annunciato di voler innalzare contrariamente a quanto dichiarato settimane addietro), nella crescita incontrollata degli interessi sul debito e nella voragine fiscale scavata dai continui tagli delle tasse introdotti nel corso del tempo a beneficio delle fasce più abbienti della popolazione.
D'altro canto, l'ammontare alquanto imponente delle detenzioni cinesi di Buoni del Tesoro statunitensi (a gennaio, ammontavano a 760,8 miliardi di dollari, a cui vanno sommate quelle, pari a 255,9 miliardi, riconducibili a Hong Kong) assicura a Pechino un'arma finanziaria particolarmente insidiosa, in grado di produrre effetti dirompenti anche senza essere necessariamente impiegata. Nella fattispecie, la guerra commerciale scatenata da Trump e l'irremovibilità cinese hanno alimentato il timore generalizzato di uno scaricamento di massa dei Treasury Bond statunitensi da parte della Cina, spingendo gli investitori a cautelarsi anticipando la mossa. Il risultato è coinciso con una caduta del corso del dollaro rispetto alle valute di riserva alternative e un' impennata del rendimento sui titoli di Stato Usa, il cui status di "porto sicuro" per eccellenza è stato per la prima volta messo in discussione. La situazione sarebbe potuta peggiorare per effetto di un riposizionamento di colossi del calibro di BlackRock, Vanguard e State Street, apertamente ostili alla linea trumpiana, i quali avrebbero potuto approfittare del crollo delle Borse statunitensi per ritrasferire verso la terra d'origine i risparmi degli europei che hanno in gestione. Magari in direzione della Germania, alla luce delle "luminose" prospettive di profitto aperte dal piano di riarmo annunciato dal cancelliere in pectore Friedrich Merz.
Di fronte all'inabissamento simultaneo degli asset statunitensi (dollaro, azioni, obbligazioni), l'amministrazione Trump ha annunciato la sospensione per 90 giorni dei dazi che erano stati imposti in occasione del "Liberation Day". Verso tutti, ad eccezione della Cina. Una decisione gravida di effetti dirompenti, in termini di rivalutazione del dollaro e rialzo dei listini azionari, ma che assume in ogni caso la valenza di una "retromarcia" innestata in un'ottica di "contenimento dei danni". L'imposizione di tariffe a 360° incoraggia giocoforza i Paesi che li subiscono a mitigarne l'impatto intensificando la cooperazione reciproca. Il commercio intra-Brics ne risentirà positivamente, ma alcuni segnali di rilievo sono giunti perfino dalla "periferia imperiale". È il caso dell'Unione Europea, che dopo aver innalzato - nel solco tracciato dall'amministrazione Biden - le tariffe sui prodotti in alluminio (dal 21 al 31,2%) e sui veicoli elettrici (dal 17 al 35%) in entrata dalla Cina ha varato un drastico cambio di rotta, concordando con Pechino un approfondimento della cooperazione economica e commerciale in riposta al protezionismo statunitense.
Allo stesso modo, il pur dirompente impatto dei dazi al 125% nei confronti della Repubblica Popolare Cinese risulta parzialmente compensabile attraverso la riattivazione dei canali alternativi allestiti nel corso degli anni proprio per "aggirare" le tariffe dirette imposte nei confronti dell'ex Celeste Impero. Come rilevava l'«Economist» nell'agosto del 2023, «nel novero dei partner commerciali preferiti dal governo statunitense rientrano Paesi come India, Messico, Taiwan e Vietnam, in cui Washington spera di stimolare il friendshoring della produzione per sostituire le importazioni cinesi. Il commercio con questi alleati sta effettivamente aumentando rapidamente: lo scorso anno, solo il 51% delle importazioni dai Paesi asiatici proveniva dalla Cina, a fronte del 66% registrato quando, cinque anni fa, furono introdotte le prime misure restrittive sotto l'amministrazione Trump. Il problema, però, è che anche il commercio tra gli alleati degli Stati Uniti e la Cina è in aumento, cosa che induce a ritenere che, spesso, questi Paesi fungano da centri di imballaggio per ciò che, in effetti, rimane merce cinese».