Lorenzo Maria Pacini
Riguardo alla profonda crisi salariale che colpisce l'Italia, è giusto riconoscere che le sue origini affondano in oltre sessant'anni di politiche economiche spesso inefficaci o focalizzate sul breve termine.
Giù i salari, produttività stagnante e povertà in aumento
Che in Italia le cose non stiano andando proprio bene, lo sappiamo ormai tutti. La difficoltà è tangibile già da tempo, ma ora comincia a diventare insostenibile anche per quanti hanno fatto finta di niente. Il Governo Meloni aveva promesso mari e monti - come al solito - ma in verità ci ha regalato l'ennesima accelerazione verso il dirupo del "fallimento di Stato".
I salari reali (cioè al netto dell'inflazione) in Italia sono stagnanti o in calo da decenni, un fenomeno unico tra i principali paesi europei.
Secondo l'OCSE, sono diminuiti del 2,9% tra il 1990 e il 2020, rendendo l'Italia l'unico paese UE con una contrazione in questo periodo. Nel 2022, il calo è stato del 7,3% rispetto al 2021, a causa dell'alta inflazione post-crisi energetica.
Tra il 2019 e il 2023, i salari reali sono scesi dell'8%, il peggior risultato in Europa, contro una media dell'Eurozona del -3%. Nel 2023, i salari nominali sono cresciuti del 3,1%, ma l'inflazione al 5,6% ha eroso il potere d'acquisto.
Il legame tra salari e produttività del lavoro rappresenta un altro elemento critico. Tra il 1999 e il 2021, i salari reali in Italia sono cresciuti più della produttività, ma a partire dal 2022 la tendenza si è invertita: la produttività ha cominciato a salire più rapidamente rispetto ai salari. In pratica, ogni lavoratore ha iniziato a produrre di più, ma il suo stipendio non è aumentato in proporzione, soprattutto tenendo conto dell'inflazione. Il confronto internazionale rende il quadro ancora più preoccupante: nei Paesi a reddito elevato, la produttività è aumentata del 30% tra il 1999 e il 2024, mentre in Italia è diminuita del 3%.
Le misure introdotte negli ultimi due anni per adeguare i salari all'inflazione hanno cercato di tamponare l'aumento dei prezzi, ma non sono state sufficienti, in particolare per chi percepisce redditi bassi. Tali lavoratori, che destinano gran parte delle loro entrate a spese essenziali come casa e alimentazione, risultano particolarmente vulnerabili. Dopo aver toccato l'8,7% nel 2022, l'inflazione ha rallentato nel 2023 e nel 2024, allineandosi alla tendenza europea, ma i salari non sono riusciti a mantenere il passo. Anzi, parliamoci chiaro: nessuno mai ci ha messo mano. Le uniche cifre che si sono mosse sono state quelle dei salari dei politici. Curioso, no? Non dovremmo forse farci qualche domanda e cominciare a pensare a chi conviene mantenere uno status di crisi permanente?
Nel frattempo, anche il Pil reale dell'Italia ha mostrato una crescita debole: con un incremento dello 0,7% nel biennio 2023-2024, il nostro Paese è rimasto indietro rispetto alla media dell'Ue (1,1%) e delle economie avanzate (1,8%). A livello globale, invece, la crescita si è attestata al 3,2%, quasi tre volte tanto.
L'Italia detiene il primato negativo tra i Paesi del G20 per quanto riguarda la perdita di potere d'acquisto dal 2008. Stando ai dati dello studio, i salari reali sono scesi dell'8,7%, una percentuale peggiore rispetto a quella registrata in Giappone (-6,3%), Spagna (-4,5%) e Regno Unito (-2,5%). Il calo è stato particolarmente marcato tra il 2009 e il 2012, negli anni successivi alla crisi finanziaria globale. All'estremo opposto si colloca la Corea del Sud, che ha visto aumentare i salari del 20% tra il 2008 e il 2024.
L'incremento del costo della vita ha aggravato ulteriormente la situazione, colpendo in modo significativo l'Italia nel biennio 2022-2023. In questo periodo, i salari reali di uomini e donne sono diminuiti rispettivamente del 3,3% e del 3,2%, superando negativamente la media delle economie sviluppate del G20. Solo nel 2024 si è verificata un'inversione di tendenza, con una crescita media del 2,3%. Tuttavia, nonostante sia superiore alla media degli altri Paesi analizzati (+1,4%), non basta a compensare le perdite subite negli anni precedenti.
Oltre il 75% della forza lavoro dipendente nel mondo è soggetta a forti disuguaglianze retributive. Secondo l'OIL, che ha analizzato i dati di 82 Paesi rappresentanti circa il 76% dei lavoratori globali, i salari orari mostrano ampie discrepanze, con le disuguaglianze più accentuate nei Paesi a basso reddito. Anche nei Paesi ad alto reddito, però, le differenze non scompaiono, ma si concentrano soprattutto nelle fasce intermedie e alte.
In Italia, le disuguaglianze salariali assumono tratti peculiari. Le maggiori divergenze si riscontrano nella fascia alta delle retribuzioni, a testimonianza di una crescente polarizzazione dei redditi. Inoltre, quasi il 52% dei lavoratori a basso salario è composto da donne, a fronte di una rappresentanza femminile generale del 43,2% tra i dipendenti. Anche l'origine incide: i lavoratori stranieri guadagnano mediamente il 26,3% in meno rispetto agli italiani, a parità di mansioni. Un divario strutturale che acuisce l'ingiustizia salariale.
E se fosse troppo tardi?
Agire sui salari non è sufficiente. Per affrontare le disuguaglianze in modo strutturale, è necessario integrare obiettivi di equità retributiva con strategie economiche e ambientali di lungo periodo. Solo attraverso una combinazione di sostenibilità, innovazione e crescita della produttività sarà possibile realizzare un'economia davvero inclusiva e resiliente.
Riguardo alla profonda crisi salariale che colpisce l'Italia, è giusto riconoscere che le sue origini affondano in oltre sessant'anni di politiche economiche spesso inefficaci o focalizzate sul breve termine. Questa eredità storica non esime l'attuale classe dirigente dalla responsabilità di agire. I dati sopra citati parlano chiaro. È vero che siamo abituati almeno in parte ad aspettare il peggio del peggio, ma è ancor più vero che "quando è troppo tardi", poi, non c'è più tempo.
A questo punto, se fossimo in un Paese sovrano con un Governo libero e interessato al bene dei propri cittadini, verrebbe indetta una riforma fiscale e bancaria in modo da bloccare questa degenerazione, spazzando via il famigerato debito pubblico e ricominciando da zero. Ma ci troviamo in uno Stato che è un fantoccio di potenze straniere, da spremere come un agrume da cui estrarre il succo, per poi gettarne la parte solida. Non c'è governo di patrioti, sovranisti o che dir si voglia, che abbia veramente provato a sistemare le cose. Tutti, uno dopo l'altro, hanno reso la loro obbedienza a Washington, Londra e Tel Aviv.
L'attuale immobilismo rischia invece di rendere permanente la frattura tra salari stagnanti e aumento del costo della vita, alimentando sfiducia e disillusione collettiva.
Nessuno pretende soluzioni miracolose, ma è legittimo aspettarsi scelte coraggiose, coerenti e di ampio respiro. In caso contrario, cambieranno forse i protagonisti, ma non cambierà il copione.