Con l'accordo del 5% in spese militari Trump chiude un cerchio che rischia di stravolgere equilibri economici e politici globali. L'Europa ha molto da perdere
Il Summit Nato 2025 dell'Aja si è chiuso il 25 giugno con un impegno ad aumentare la spesa militare al 5% del Pil nei prossimi dieci anni, con un tagliando al 2029. Di questo 5%, il 3,5% riguarda le spese militari e l'1,5% la cosiddetta "resilienza", in particolare delle infrastrutture critiche. Gli Stati Uniti di Trump hanno imposto la loro linea senza alcuna opposizione. L'accordo siglato rilancia di fatto l'economia americana, mentre il conto lo pagherà soprattutto l'Europa. Ecco perché.
Negli Usa, il debito pubblico nel 2025 ha toccato 36.210 miliardi di dollari, pari al 123% del Pil. Nel 2024, per la prima volta nella storia, gli interessi sul debito (1.100 miliardi a prezzi correnti) hanno superato la spesa militare (892 miliardi). Un sorpasso che, come ricorda lo storico Niall Ferguson, accompagna sempre le fasi di declino di ogni potenza egemone. Un segnale di crisi sistemica e regresso del potere globale, oggi più attuale che mai per gli Stati Uniti.
Trump è quindi corso ai ripari, ma evitando misure impopolari e visibili come un aumento diretto della tassazione "interna". La sua prima mossa è stata sostenere una nuova strategia di crescita basata sui dazi (come il 30% annunciato nei confronti dell'Europa) non tanto per proteggere industrie emergenti, quanto per usarli come leva politica capace di strappare condizioni più favorevoli all'industria Usa nei rapporti commerciali globali. Una scelta in aperto contrasto con l'impianto multilaterale faticosamente costruito nei decenni scorsi.
Una seconda mossa è stata la composizione di una rete di accordi sui minerali critici (Ucraina e Cina in particolare), e l'intesa fiscale in seno al G7 che di fatto esenta le Big Tech americane dalla "global minimum tax".
A completare la strategia è arrivata la terza mossa: trasferire sugli alleati Nato parte del peso della spesa militare. Con l'accordo del 5% Trump chiude un cerchio che rischia ora di stravolgere equilibri economici e politici globali. L'Europa ha molto da perdere dal vincolo del 5%. Che si tradurrà in una inevitabile pressione sulle finanze pubbliche degli Stati membri, già fortemente sotto stress, a discapito di settori fondamentali come il welfare, l'istruzione e l'ambiente.
Alcuni sostengono che l'economia di guerra può generare crescita e tutelare gli interessi europei, ma è molto più plausibile che si verifichi lo scenario opposto: una crescita debole e poco redistributiva, con un indebolimento del welfare e della capacità produttiva civile. Il rischio aumenterebbe se le risorse andranno in acquisti di armamenti statunitensi (come i Patriot per l'Ucraina), senza coordinamento tra Stati Ue, né investimenti tecnologici autonomi. Ma anche con un maggiore coordinamento resterebbe il trade-off tra spesa per il welfare e spesa militare, quest'ultima con un effetto moltiplicativo ben inferiore sulla domanda e sull'occupazione.
L'industria bellica, a differenza della manifattura tradizionale che ha sostenuto per decenni lo sviluppo europeo (e italiano), è poi un settore altamente automatizzato. Tecnologie come intelligenza artificiale e sistemi avanzati di simulazione riducono sempre più il fabbisogno di manodopera.
Il risultato? A fronte di ingenti investimenti pubblici, i ritorni occupazionali saranno modesti: si stima un massimo di 500.000 posti di lavoro in tutta Europa (Ernst & Young), contro i circa 30 milioni di occupati nella manifattura europea tradizionale, di cui oltre 3,8 milioni solo in Italia. Un saldo negativo, che rischia di lasciare indietro migliaia di lavoratori, difficili da ricollocare senza percorsi di riqualificazione di cui nessun policy maker ha fatto ancora menzione.
Articolo originale www.ilfattoquotidiano.it