
Giacomo Gabellini
Oppure l'importanza delle sanzioni imposte alle compagnie petrolifere russe è stata esagerata?
Il 23 ottobre, dopo aver proclamato la cancellazione del vertice di Budapest con Putin annunciato solo pochi giorni prima, il presidente Trump ha irrogato pesanti sanzioni contro i colossi dell'energia russi Rosneft e Lukoil. L'obiettivo, spiega il segretario al Tesoro Bessent, è quello di punire «il rifiuto del presidente Vladimir Putin di porre fine a questa guerra insensata, colpendo le due maggiori compagnie petrolifere che finanziano la macchina bellica russa in Ucraina. Incoraggiamo i nostri alleati a unirsi a noi e ad aderire a queste restrizioni». Prevedibilmente, le nuove sanzioni hanno impresso una poderosa e immediata spinta al prezzo del petrolio, come certificato dalla crescita vigorosa delle quotazioni del Brent del Mare del Nord, del West Texas Intermediate statunitense e dell'Urals russo. Analogamente a quanto verificatosi sulla scia delle misure punitive imposte a suo tempo dall'amministrazione Biden contro Gazprom Neft e Surgutneftegas, la rivalutazione della materia prima innescata dalle sanzioni va a compensare la riduzione quantitativa dell'export che ne deriva. Lo dimostrano i dati forniti dal Ministero delle Finanze di Mosca, da cui emerge che, a dispetto delle sanzioni, la Russia ha ricavato nel 2024 entrate dalla vendita di petrolio e gas del 26% superiori rispetto all'anno precedente, ovviando alla caduta del 24% su base annua registrata nel 2023.
La Cina, principale acquirente di petrolio russo, non manifesta alcun segnale di cedimento alle pressioni statunitensi, come si evince dall'accordo siglato con la Russia per la realizzazione del gasdotto Power of Siberia-2 e dalle recenti restrizioni imposte da Pechino sull'export di terre rare e dal crollo delle importazioni cinesi di soia statunitense. Dal punto di vista di Pechino, le nuove sanzioni statunitensi rappresentano per di più un formidabile incentivo per aggirare strutturalmente il dollaro, attraverso l'accelerazione del processo di "internazionalizzazione dello yuan-renminbi" di cui il «Financial Times» documenta il costante avanzamento imputandolo proprio all'effetto propulsivo esercitato dalle sanzioni statunitensi ed europee contro la Russia. Secondo i calcoli del quotidiano britannico, il volume dei prestiti esteri, degli investimenti obbligazionari e dei depositi in yuan-renminbi gestiti da banche cinesi è quadruplicato nell'arco di un quinquennio, raggiungendo quota 3,4 trilioni di yuan-renminbi - pari a circa 480 miliardi di dollari. I dati forniti dall'Amministrazione Statale dei Cambi di Pechino attestano un rapido incremento della quota denominata in yuan-renminbi delle attività esterne a reddito fisso riconducibili al circuito bancario cinese, più che raddoppiate nell'ultimo decennio - superando 1,5 trilioni di dollari. La Bank for International Settlements di Basilea quantifica in 373 miliardi di dollari in un quadriennio l'incremento del credito bancario estero in yuan-renminbi erogato a favore dei Paesi in via di sviluppo, precisando che «il 2022 ha segnato una svolta, passando dal credito denominato in dollari ed euro a quello denominato in renminbi» per i debitori del cosiddetto "Sud del mondo". Approfittando dei bassi tassi di interesse vigenti in Cina, Paesi come Kenya, Angola ed Etiopia hanno convertito in yuan-renminbi vecchi debiti espressi in dollari. Indonesia e Slovenia, invece, hanno annunciato l'intenzione di emettere obbligazioni denominate in valuta cinese, emulando l'esempio della banca di sviluppo del Kazakistan che ha piazzato un'obbligazione offshore da 2 miliardi di yuan-renminbi a un rendimento del 3,3%. La New Development Bank, l'istituto di credito di riferimento del Brics, ha emesso nel 2025 "Panda Bond" per un controvalore di 7 miliardi di yuan-renminbi, pari al 70% delle emissioni internazionali.
L'affermazione della valuta cinese si riflette nelle statistiche del sistema di pagamenti transfrontalieri Swift, da cui emerge una quadruplicazione nell'arco di un triennio della quota di commercio globale finanziata in yuan-renminbi, giunta a settembre al 7,6% del totale. L'incremento del valore delle transazioni denominate in valuta cinese all'interno del Cips, il sistema di pagamenti transfrontalieri messo a punto da Pechino, ha tuttavia registrato una crescita ancor più rapida e consistente, passando da un importo prossimo allo zero a 40.000 miliardi di yuan-renminbi per trimestre dall'inizio del 2025. Segno, evidenzia Bert Hoffman, docente presso l'East Asian Institute della National University of Singapore, di una «migrazione dei pagamenti verso il sistema cinese, che rafforza l'ambizione di Pechino di abbandonare il sistema monetario globale basato sul dollaro in favore di un'architettura multipolare e multivalutaria». I dati pubblicati dalle dogane cinesi mostrano che il volume dell'interscambio della Cina con il resto del mondo liquidato ogni mese in valuta locale supera regolarmente il trilione di yuan-renminbi, divenuta ormai la seconda moneta maggiormente impiegata nel commercio internazionale dopo il dollaro. Per Hoffman, «tutti gli elementi che renderebbero possibile un'internazionalizzazione [dello yuan-renminbi, nda] molto più rapida si stanno concretizzando». Sanzioni statunitensi comprese.
L'India, altro grande importatore di petrolio russo, si trova in una situazione più delicata. Lo scorso 16 ottobre, il governo Modi ha annunciato una diversificazione degli approvvigionamenti per soddisfare parzialmente le richieste dell'amministrazione Trump e ottenere la revoca dei nuovi dazi del 25% (che combinati a quelli in essere portano la soglia al 50%) imposti da Washington ad agosto con l'obiettivo di forzare Nuova Delhi a indebolire la partnership energetica con Mosca. L'apertura indiana non è tuttavia coincisa con un blocco delle importazioni di energia dalla Russia, cresciute a dismisura a scapito di quelle mediorientali in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino con il consenso degli stessi Stati Uniti che ne apprezzavano l'effetto stabilizzatore sul mercato energetico mondiale. I dati disponibili attestano che, nel mese di settembre, i centri di lavorazione indiani hanno importato dalla Russia oltre 1,5 milioni di barili al giorno, in linea con la media registrata nel periodo estivo. Secondo Kpler, società di consulenza finanziaria con sede a Singapore, nemmeno a ottobre si è registrato «alcun segno visibile di riduzione, con le importazioni stabilizzatesi intorno a 1,8 milioni di barili al giorno», a dispetto dei roboanti annunci di Trump che asseriva di aver ricevuto assicurazioni dal suo omologo Modi circa l'impegno dell'India a interrompere le importazioni di petrolio russo.
Le nuove sanzioni imposte da Washington contro Rosneft e Lukoil pongono tuttavia l'India in una posizione particolarmente difficile, perché espongono le raffinerie indiane a ulteriori, pesanti ritorsioni statunitensi. Reliance Industries, il maggiore acquirente privato di petrolio russo in India, ha proclamato una "ricalibrazione" degli acquisti. Meno chiara risulta la posizione di Nayara Energy, secondo importatore di greggio russo partecipato per di più da Rosneft e quindi particolarmente vulnerabile alle stilettate Usa. Le società Indian Oil Corporation, Bharat Petroleum Corporation e Hindustan Petroleum Corporation potrebbero invece intraprendere una strada alternativa perché controllate dallo Stato e ispirate pertanto da una logica radicalmente diversa rispetto alle aziende private. Votata, cioè, alla «tutela degli interessi dei consumatori. La politica energetica indiana privilegia prezzi stabili e forniture sicure», impossibili da ottenere includendo la Russia nell'elenco delle fonti di approvvigionamento proibite, in cui Nuova Delhi aveva già inserito Iran e Venezuela sempre dietro il pungolo statunitense.
Sebbene, anche alla luce della riduzione tendenziale degli sconti sulle forniture applicati da Mosca, Amitendu Palit della National University of Singapore sostenga che «i vantaggi economici dell'acquisto di petrolio russo non sono poi così significativi» rispetto alla prospettiva di un accordo commerciale con gli Stati Uniti, il punto è che non esistono canali di rifornimento - nemmeno quello statunitense - in grado di rimpiazzare completamente il petrolio russo. Varie forme di triangolazione potrebbero quindi essere messe in piedi per aggirare i provvedimenti punitivi statunitensi, sul calco dei modelli allestiti dalla Turchia e dai Paesi dell'Asia centrale dal 2022 in poi.
In compenso, il rialzo dei prezzi del petrolio stimolato dalle sanzioni risulta pienamente confacente con gli interessi riconducibili ai produttori di idrocarburi non convenzionali statunitensi, che necessitano di un break even piuttosto elevato (65-70 dollari per barile) e costituiscono uno dei bacini elettorale di riferimento più rilevanti per Trump. Il quale rischia in compenso di inimicarsi il favore dei consumatori statunitensi, per i quali la rivalutazione del prezzo del petrolio si traduce in un aumento del costo del carburante sempre più difficile da sostenere, come certificato dall'aumento costante del debito delle famiglie. Lo ha sottolineato lo stesso Putin, secondo cui le misure punitive appena irrogate rappresentano «un atto ostile che potrebbe ritorcersi contro, facendo impennare i prezzi globali del petrolio», già sospinti verso l'alto dalla "strana" catena di esplosioni registrate a brevissima distanza di tempo una dall'altra presso ben tre raffinerie dell'Europa orientale che processavano idrocarburi russi. La Russia, ha spiegato il leader del Cremlino, risentirà dei provvedimenti statunitensi diretti contro Rosneft e Lukoil, ma l'impatto sull'economia nazionale risulterà scarsamente significativo.